Genesi e storia

Piazzale Moroni

È corretto sottolineare come la denominazione corrente della zona in questione, altresì conosciuta come “Legino alta” o “Rocca di Legino”, trova diffusione ed entra in uso nel linguaggio comune soprattutto negli anni ’70 e ’80 del XX secolo: è solo in questo periodo storico difficile, coincidente con l’acutizzarsi del degrado e dell’urbanizzazione sconsiderata, che i luoghi in questione assumeranno la denominazione generica di “Piazzale Moroni”. La storia del quartiere di piazzale Moroni nasce nel secondo dopoguerra, con la richiesta di nuove residenze in aggiunta a quelle create con la prima espansione al di fuori del centro città di matrice ottocentesca. Dopo le fasi storiche rappresentate dal centro storico e dall’espansione ottocentesca, a Savona, si aprì agli inizi del XX secolo, la fase della concezione di città “per borghi”, sulla falsariga dell’esperienza genovese, che prevedeva la veloce assimilazione di borghi adiacenti alla città che spesso avevano già una piena funzionalità strutturale e sociale. Tale passaggio, tipico dei primi decenni del ‘900, si concluse di fatto al termine del secondo conflitto mondiale lasciando intonsa la città dalla logica delle “periferie ghetto”, intese come tali, secondo i canoni tipici delle città in crescita sotto la spinta del boom demografico seguente il secondo conflitto mondiale.

Le nuove periferie a Savona nascono a partire dagli anni ‘50, quando con il forte sviluppo industriale e dei servizi, gli amministratori e gli urbanisti dell’epoca disegnarono e realizzarono l’espansione della città secondo il principio della zonizzazione, destinando vasti comparti di aree a funzioni uniche: in particolare a fianco di zone o distretti industriali, nacquero interi quartieri di edilizia residenziale.
Il modello adottato fu quello modernista e razionalista, che prevedeva una severa differenziazione e “specializzazione” delle singole aree urbane, secondo logiche che guidarono la cultura urbanistica dal 1942 e tuttavia ancora produttore di conseguenze con i decreti sulle zone omogenee e gli standard obbligatori di servizio del 1968. Fu quello il momento storico a Savona, per i nuovi quartieri dove ogni volumetria realizzata aveva come unica destinazione d’uso la residenza, quartieri capaci di assumere le sembianze di quelle che nei fatti dell’esperienza savonese erano fino ad allora sconosciuti, ovvero i più classici quartieri periferici del dopoguerra italiano.

Tutto ciò accadde secondo criteri razionali e logici all’interno dei Piani regolatori, a differenza di situazioni note in altri contesti urbani, dove si realizzarono crescite caotiche fuori dalle politiche dei piani regolatori. Questa espansione creò comunque aggregati monofunzionali che nel tempo hanno poi dimostrato tutta la loro fragilità in termini di vivibilità urbana, integrazione sociale e qualità ambientale, costringendo negli ultimi anni le Amministrazioni ad arricchire questi insediamenti di servizi e infrastrutture e a potenziare una politica di assistenza per le situazioni di maggiore emarginazione e degrado.

Un primo passaggio era comunque legato alla scelta dell’area di realizzazione del progetto presentato. Secondo le indicazioni del bando ministeriale, la zona ideale per l’attuazione del programma “Contratto di Quartiere II” andava individuata fra i quartieri “caratterizzati da diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano, carenze di servizi e un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo“. Le risorse limitate e la mancanza di tempo per la redazione di un apposito piano urbanistico suggerivano inoltre, di operare con interventi di recupero dell’esistente, di modernizzazione delle reti tecnologiche, di creazione di spazi pubblici e servizi e di conseguenza agire per il miglioramento delle condizioni sociali e ambientali.

Area Piazzale Moroni

Il nucleo del quartiere di piazzale Moroni, oggetto degli interventi previsti dal progetto elaborato ai fini della partecipazione al bando per i “Contratti di Quartiere”, è dunque figlio ed esemplare tipo di questa tendenza di sviluppo urbano, composto unicamente da unità immobiliari previste da piani di edilizia residenziale pubblica e realizzate quasi totalmente dall’Istituto per le Case popolari (oggi ARTE - Azienda Regionale per il Territorio e l’edilizia). Ciascuna unità sarà spesso considerata come condominio a sé, ovvero senza una organizzazione delle strade e degli spazi da destinarsi a funzioni pubbliche. Nello specifico, il Comune di Savona partecipò al bando con il progetto per il quartiere di piazzale Moroni, prevedendo “la riqualificazione di edifici di edilizia residenziale pubblica nonché il ripristino delle aree pubbliche, attraverso una particolare attenzione sia agli aspetti ecologico-ambientali sia di risparmio energetico, tramite una migliore coibentazione termica e l’installazione di barriere frangivento necessarie per garantire un maggiore comodità ai residenti”.

Con questo progetto il Comune capoluogo fu ammesso al finanziamento di 7.991.000 euro.
Il quartiere savonese ritenuto più idoneo dai partecipanti al bando, secondo queste direttive, fu quello denominato piazzale Moroni.
A dispetto del nome, si tratta di un quartiere situato in collina, nella seconda periferia occidentale rispetto al centro storico di Savona. Il sito urbano nacque a cavallo degli anni ’50 e ‘60 come quartiere di case popolari: i palazzi GESCAL (Gestione Case Lavoratori, progetto sviluppato nel 1963 con il Governo Fanfani IV) occuparono infatti il posto della campagna e degli orti che caratterizzava questa altura. Inizialmente, il quartiere fu un cantiere a cielo aperto: tra i palazzi già completati, spuntavano gli scavi per quelli a venire. Solo dopo qualche tempo sarà realizzata la scuola elementare, vero centro del quartiere, sia in senso fisico sia sociale, in quanto per molti anni sarà l’unico servizio presente.

Il boom demografico che interessò l’Italia in quegli anni e l’aumento della popolazione proveniente dall’Italia meridionale, stava creando un’autentica emergenza abitativa anche in questi luoghi. Erano trascorsi pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale e a Savona le case danneggiate dagli eventi bellici e dunque indisponibili, erano numerose.

Con la legge n. 640 del 9 agosto 1954, il cosiddetto “Piano Romita” (dal nome del Ministro dei Lavori Pubblici di allora) che prevedeva il trasferimento di fondi, pari a circa 170 miliardi di lire, furono creati nuovi alloggi da destinare agli occupanti di abitazioni malsane.

Si legge da una nota del Comune di Savona, datata 13 marzo 1958 e indirizzata al presidente dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari, assegnatario del Ministero per una parte delle costruzioni: “L’Amministrazione comunale ha disposto questo piano d’intervento a favore dei programmi previsti dal Piano Romita per la costruzione di case alle famiglie allogate in grotte, baracche, scantinati, edifici pubblici, locali malsani e simili, per accelerare e per rendere più facile l’attuazione di detto piano nella nostra città dove il problema dei baraccati è particolarmente acuto e dove la necessità di addivenire alla bonifica urbanistica di determinate zone della città è estremamente urgente sia per ragioni sociali sia strettamente urbanistiche e di sviluppo cittadino”.

Il nuovo quartiere popolare diventò così la dimora di famiglie per lo più operaie, immigrate, di bassa estrazione sociale.
L’evoluzione sociale e il contesto storico degli anni ’70 tuttavia, ha contribuito a un pesante degrado della zona con la presenza di microcriminalità diffusissima che ne fece un autentica zona “offlimits” della città, con particolare riferimento alla diffusione di droga e in particolare dell’eroina, rivelatasi poi causa di numerosissime morti nei giovani residenti in zona. Questo quartiere era perciò considerato da molti in città, un autentico ghetto abitato da soggetti e nuclei familiari difficili. I punti di ritrovo coincidevano spesso, anche se non sempre avendo il quartiere comunque mantenuti punti di aggregazione virtuosi, con locali pubblici, la cui fama era nota in tutta la città e costantemente pattugliati dalle forze dell’ordine, perché ritenuti autentici covi della malavita delinquenziale. Chi si trovava costretto talvolta suo malgrado, a vivere in questo quartiere, spesso se ne vergognava e non era raro affermare con decisione da parte degli abitanti che si era residenti alla Rocca di Legino, in realtà un altro modo di identificare geograficamente la famigerata zona di piazzale Moroni.

Sebbene il ricambio generazionale e le mutate con-dizioni sociali abbiano placato la turbolenza degli abitanti rispetto agli anni ’70, il quartiere è ancora oggi dimora di famiglie con problemi economici, sociali e giudiziari. Inoltre, l’insediamento di alcuni nuclei provenienti da paesi stranieri e i problemi correlati al loro inserimento nel tessuto sociale del luogo hanno ricordato quelli dei migranti meridionali giunti in massa negli anni ’60 e ’70.

Il quartiere ha mantenuto in parte una certa difficoltà socio-economica che però non lo vede più tra le zone “critiche” della città: oggi “piazzale Moroni” si è distaccata definitivamente dal cupo e famigerato alone, anzi, assumendo dopo i numerosi interventi attuati, una considerazione associata alla consapevolezza diffusa della buona qualità di vita raggiunta.

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